FATHERSNAKE ON THE ROAD

Blog di corsa, ma non solo, di un runner per metà rocker e per metà podista.

giovedì 29 dicembre 2016

Come sarà la quarta maratona?


La prima, a Reggio Emilia. Un vero salto nel buio, affrontato con entusiasmo e curiosità e premiata da un risultato, viste la mie possibilità, brillante: 3h24:49
La seconda, a Bratislava. Più sicuro di me, partii con l'idea di poter migliorare il tempo della precedente; tentativo che non andò a buon fine ed anzi, ricordo di aver camminato per qualche tratto nel finale, fatto che che in quel momento interpretai come un onta: 03:35:26
La terza, la Maratona delle Alpi Marittime. Iniziata in modo fin troppo spavaldo, commisi l'errore di
sottovalutarla, e giunsi ad un passo dal ritiro: 04:02:46
La quarta avrebbe dovuto essere quella di Malaga, sennonché ci ha pensato una alluvione a cancellare l'evento gettando nello sconforto gli organizzatori ed i circa tremila partecipanti previsti, tra cui il sottoscritto.La sostituirà il 6 gennaio quella di Crevalcore, in provincia di Bologna, un ripiego scelto con criteri di opportunità temporale e con il bisogno di concretizzare una preparazione almeno per una volta finalizzata. Non denigro la gara in sé, anzi: i pochi i commenti raccolti qua e là in rete ne parlano bene, almeno dal punto di vista organizzativo. Ma dal punto di vista paesaggistico le due maratone sono molto diverse. Per non parlare del numero di partecipanti, tant'è che mi sono rassegnato alla idea di dover percorrere lunghi tratti in solitaria.
Il video della edizione 2015 della maratona bolognese mostra i primi attraversare la cittadina nell'indifferenza di sparuti passanti. Neanche un timido applaudire a riconoscerne il gesto
atletico. Non mi serve tifo sfrenato e bande musicali ogni chilometro per correre, però
quando l'entusiasmo è già calante in partenza vedere sostenuti i propri sforzi da qualche incoraggiamento raccolto lungo il percorso fa piacere. E' benzina psicologica che per un attimo cancella la fatica.
Sì, perché non potrò contare sulla voglia spasmodica di correre. L'entusiasmo, che considero un carburante necessario per impegnarsi in una distanza così importante, è rimasto in Spagna.
Il sei gennaio sarà gara, non sarà EVENTO.
Gli allenamenti di questi giorni, trascorsi dribblando il più possibile panettoni e pandori e ciononostante con l'eredità di qualche chilo da smaltire si trascinano senza particolare voglia. Penso già al DOPO. L'unico proposito è quello di voltar pagina al più presto in modo da
ripartire con altri progetti futuri. Qualcosa che bolle in pentola c'è: la destinazione primaverile che sostituirà degnamente Malaga è già stata scelta.
Comunque andrà, la quarta maratona sarà di certo una epifania.

lunedì 18 luglio 2016

Father corre intorno al lago. (Giro del lago di Moncenisio, 26esima edizione)


La mia fase di ricerca di una migliore forma podistica, accompagnata (spero) da un aumento del passo di corsa ha fatto  tappa ieri a Moncenisio, dove ho preso parte alla storica gara di 16 chilometri lungo il periplo dello stesso lago.
Come al solito, quando si tratta di scegliere tra un solitario ed accaldato lungo ed una gara dalla stessa lunghezza opto per la seconda, a maggior ragione in questo caso, con un percorso a 2000 metri e quindi ben lontano dall'afa della pianura.
Approdo insieme a Lia e mia madre a Plan Des Fontainettes due ore prima della partenza,  congruo anticipo voluto apposta per scongiurare possibili code alla frontiera francese, che però non ci saranno.
Cielo di un bellissimo azzurro, a rivaleggiare con quello dell'imponente lago, che spicca al fondo di una vasta conca, circondato da verdi praterie.
Mi figuro un percorso con qualche saliscendi di lieve entità, quasi interamente pianeggiante, che sovrascriva più o meno l'allenamento previsto.
Con un tale anticipo sullo start ho tempo di effettuare un riscaldamento con i controfiocchi, cosa che raramente mi riesce.
Corricchiando qua e là sento parlare di "salita finale" e mi preparo dunque ad un arrivo di sofferenza. Si parte verso il versante francese, con il primo chilometro a 4:35, invogliato da un leggero declivio
Fino al quinto chilometro alla discesa si alternano brevi strappetti di salita e la cosa, podisticamente parlando, mi infastidisce. Appena rifiato alla fine della discesa già vedo in lontananza la prossima ascesa.
Pazienza!  Convinto che, una volta doppiato il margine estremo del lago, a nord
la strada scenda leggermente o almeno spiani, raggiunto invece il punto di svolta, che ci porta su sterrato abbandonando la strada principale, scopro con scoramento che continua a salire a perdita d'occhio, punteggiata dal serpentone multicolore di coloro, davvero tanti, che mi precedono. Cerco di corricchiare fino a che posso, però poi scelgo di camminare per brevi tratti cercando comunque di non perdere troppo terreno. E' la fase del "sembrano tutti più in forma di me". Comincio a chiedermi quando finalmente ci sarà una discesa SERIA.
Inesorabilmente si continua a salire, su un largo sentiero molto corribile.
Mi ritrovo praticamente di nuovo in mezzo ad un trail,  nonostante quest'anno volessi tenermene lontano, dopo i circa cinquanta corsi in quattro anni.
Le sensazioni non sono ottimali, sembra che non riesca ad ingranare la marcia giusta. Pensavo di percorrere un sentiero agevole quasi in riva al lago invece sul versante opposto alla partenza il sentiero sale ben più in alto delle azzurre acque e continuerà a farlo fino al dodicesimo chilometro circa, quando dopo altre sei o sette pause di camminata, giungo finalmente al culmine dell'ascesa.
Mentre distendo le gambe lungo la discesa benedetta, che mi permette di recuperare qualche posizione non posso fare a meno di chiedermi, preparandomi al peggio: "se quella fin'ora corsa non è stata neppure menzionata come salita ma lo è stata, com'è sarà l'ultima salita, di cui ho sentito parlare nel pregara"?
Ottocento metri, e la discesa già è finita. Davanti a me ora un chilometro dritto come un fuso lungo la diga di contenimento del lago a raggiungere l'opposto versante, passando accanto al passeggio di turisti indifferenti. Il paesaggio è tanto statico che sembra di correre su un tapis roulant.
Riesco a tenere un ritmo decente, ed infatti per tutto quel tratto si fermano i sorpassi dalle retrovie, poi il percorso si impenna decisamente, e la tanto temuta salita finale si presenta in pompa magna con un bello strappetto che mi vede optare per una salvifica camminata (ormai, troppo stanco, penso solo a sopravvivere) fino a che il sentiero sfocerà sulla strada asfaltata.
Lasciato alle spalle lo sterrato, non finisce però la salita. Troppo stanco per rintuzzare i sorpassi sempre più numerosi, mi lascio condurre all'arrivo dal pilota automatico.
Come al solito, anche quando potrei tranquillamente limitarmi ad una corsetta in compagnia tralasciando velleità agonistiche, giusto per portare a casa un lungo, mi lascio prendere dalla foga,
sperando si generi magicamente una prestazione super che dia vigore  ed infonda entusiasmo ai futuri allenamenti. Non è stato così ed ho ricevuto esattamente quello che per ora ho seminato, con una posizione di metà classifica trai 460 arrivati. Troppo presto ancora per raccogliere qualche frutto ed in ogni caso la salita non sarà quest'anno il migliore campo di raccolta.
Contento però di aver potuto correre in un così splendido paesaggio, in una splendida giornata di sole.



sabato 12 marzo 2016

Una meta, un sueño (Transgrancanaria marathon)





L'autobus, guidato dalle esperte mani di un autista del luogo, segue con precisione una stretta strada che si inoltra nel cuore di Gran Canaria.  Altri autobus seguono ed altri precedono per un totale di sei,    trasportando un carico di runner che correranno la Transgrancanaria marathon 2016. Destinazione: El Garanon. Con alle spalle il bailamme turistico commerciale della costa, tornante dopo tornante l'isola sta svelando il suo volto più vero e selvaggio, fatto di severe e brulle alture, imponenti formazioni rocciose, bassa vegetazione. Ogni tanto compare qualche paesino a colonizzare il paesaggio selvatico, mentre cominciamo a scorgere le bandelle sistemate dall' organizzazione. Giungiamo alla meta dopo due ore di viaggio, dovute anche ai frequenti stop ove, nei punti più  stretti, qualche auto era costretta a manovrare per favorire il passaggio  del bus. Sbarchiamo in un bosco di conifere accolti da un freddo pungente, tanto che mi ritrovo a tremare nonostante la giacchetta che avevo indossata salendo sul mezzo. 





Non c'è tempo per un riscaldamento, in quanto dopo la punzonatura siamo subito accolti da appositi settori che, come le griglie della maratona, corrispondono alla durata stimata della gara. Mi sistemo in quello delle sei ore, e mi ritrovo nella prima griglia, venti minuti prima della partenza. Lo speaker è in gamba e fra incitamenti,  musica a palla, mani al cielo e finalmente countdown, finalmente si parte. Mannaggia,  mi commuovo e qualche lacrimuccia  scende a tradimento: impossibile non farsi coinvolgere dall'atmosfera, senza contare che i primi cento metri si fanno strada in mezzo ad un pubblico caloroso ed incitante,  che non lesina applausi ed "ANIMO"! Questa è la gara che da anni ho  immaginato di correre, ed ora sono qui, insignificante runner da cortile,  a consumare le mie forze per dar vita a questo grandioso spettacolo collettivo, a condividere con altri ottocentoventidue cuori questo sueno, che ti fa sentire grande anche se grande non sei.
In questo primo tramo il terreno è morbido, cosparso di aghi di pino. Poco prima della partenza ho scelto di sfidare il freddo, togliendomi la giacchetta. Scelta giusta, a posteriori: appena il sentiero si impenna in modo tale da costringerci a camminare in fila indiana sento presto caldo e compatisco chi non si è  liberato degli indumenti più pesanti.
L'ascesa è tutto sommato indolore: i ritmi non sono certo elevati e si vive una atmosfera di allegria scevra da tensione agonistica. Nei punti in cui grossi rami di pino caduti al suolo restringono la già esigua pista si formano estemporanei tappi. Il punto più elevato del percorso è presto raggiunto: si tratta del Pico de Nieves,  a 1942 metri di altezza. 
Si scende: in lontananza le imponenti formazioni rocciose del Roque Nublo

 La discesa seguente serpeggia senza particolari difficoltà tecniche e permette in alcuni tratti di alzare lo sguardo a cogliere la magnificenza del paesaggio che ci circonda. Mi volto, per cogliere qualche immagine in più e scorgo una fila di variopinte figurine umane a tracciare la strada che ho appena percorsa. E' il tratto in cui mi sento meglio, al termine del quale recupero 57 posizioni.

Senza particolari difficoltà dopo dodici chilometri avviene il ritorno alla civiltà, giungendo in picchiata al primo ristoro, a San Bartolome de Tirajana (Tunte)

L'accoglienza dei locali è festosa, con piccoli capannelli che non lesinano incitamenti.  Qualche caramella gommosa, un pugno di noccioline, e riparto: da bere ne ho in abbondanza. Ancora un tratto di discesa su asfalto, poi curva secca a destra e su ad arrampicarci per una viuzza con una pendenza da villaggio tibetano. Dopo un falsopiano che funge un po' da antipasto, mi trovo a fissare con sgomento un lungo nastro di cinque chilometri  di salita che mi vedrà camminare per la maggior parte del tempo, per un arido ed aspro sentiero che costeggia il Barranco de Pilancones.
Rifletto che definire la gara "una maratona in discesa" è un modo sbrigativo e poco appropriato per definire una prova ben più completa. Non si incontrano pendenze esagerate, ma i tratti in salita si fanno sentire e non sono semplici intermezzi tra una discesa e l'altra.
Nel frattempo, da un verde nord ci siamo trovati in una arido sud, con una vegetazione spoglia e di basso fusto tipica del deserto.
Nella successiva discesa mi si accende una spia di allarme. Ho recuperato altre dieci posizioni, ma la meta sembra ancora terribilmente lontana da affrontare con gambe che  sembrano aver perso reattività e questo mina la mia fiducia. Comincio a farmi da parte per far passare i sempre più numerosi runner che mi superano. In questi istanti sembrano tutti più  in forma.  È una discesa a malapena corribile che subisco passivamente, come un pugile messo alle corde da una serie di colpi ben assestati. Sono stanco. Con stato d'animo sempre meno entusiasta, dopo aver percorso una strada sulla parte terminale della diga di Ayagaures, raggiungo il ristoro che da tempo bramavo, per fare il punto della situazione e magari rimettere in sesto le gambe con degli automassaggi e stretching. Gente sempre festosa, io sempre meno.
La diga di Ayagaures. Sullo sfondo serpeggia la salita che si percorrerà al ritorno.


Telefono a Lia che,  vedendo la chiamata, pensa che abbia  intenzione di ritirarmi mentre volevo solo avere una idea della mia posizione rispetto agli altri partecipanti.
Aspetto un po'  e riparto senza sentirmi molto meglio di prima. Si riattraversa per un tratto  la stessa strada della diga ma all' inverso, poi ci attende un' altra salita di tre chilometri su una ampia strada sterrata non particolarmente tosta,  battuta da un vento fastidioso.
 Nessuno corre qui e questo mi rincuora. A parte qualche alieno che ci supera corricchiando, la maggior parte dei concorrenti intorno a me cammina. Recupero qualche posizione, senza faticare più di tanto, pur mantenendo un passo veloce e costante. E' l'ultima pendenza della gara. Da qui in poi si scende. Le gambe sono stanche, e pur non trattandosi di un declivio difficoltoso, basta poco per inciampare. Così succede infatti a due davanti a me, uno dopo l'altro. Niente di grave: uno la prende sul ridere, e guardandomi, dice qualcosa che probabilmente è una battuta scherzosa. Trattandosi di uno spagnolo, come almeno l'80 per cento dei concorrenti, non capisco nulla ma rido sulla fiducia. Quando la strada finalmente spiana, raggiungiamo il tratto meno coreografico: quello che sembra il letto di un torrente in secca, dove un tunnel di verzura nasconde alla vista l'ambiente circostante.

I ciottoli limitano la corsa, ma la mia è  comunque ormai una sorta di procedere secondo la scuola  corri e cammina di  Jeff Galloway. Dopo  i primi venti chilometri le velleità agonistiche sono state sostituite progressivamente dalla voglia di finire la gara.  Con rare eccezioni, è  quello che fanno tutti, ormai.
Non penso alla classifica, ma cerco comunque di difendere la posizione, non si sa mai.
Dal freddo pungente di El Garanon siamo passati ad un caldo secco che mi fa consumare velocemente la cola con cui ho riempito la borraccia a mano. Un gentilissimo concorrente mi offre dell'acqua, ed indicandomi  chiede se sto bene "Yes, and you?" "Ok"
Ormai siamo nella periferia di Maspalomas. A coppie, gruppetti, in ordine sparso come soldati in rotta dopo una battaglia ci avviciniamo alla meta agognata, guadagnandoci qualche residuo "ANIMO!" cui per la stanchezza  rispondiamo, al massimo, con uno stiracchiato sorriso.
Esaurite da tempo le energie, è rimasta solo la volontà. Quando finalmente scorgo l'arrivo e quando lo varco, dopo una passerella tra il pubblico, pur avendolo bramato per cinque ore e mezza non provo le stesse vibranti emozioni della partenza, solo un compiaciuto senso di soddisfazione per essere riuscito a varcare la meta, ed a realizzare il sueño.

Dati:
Distanza 42,62 km
Durata 05:32:03
223esimo su 822 partenti
Quinto di categoria su 60




lunedì 9 novembre 2015

La maratona che non volevo finire (Marathon Des Alpes-Maritimes - Nice-Cannes 2015)

Tralasciando il prologo, con la tragica levataccia delle 4.45 per prendere in tempo gli autobus che mi hanno portato da Cannes a Nizza, ovvero dal traguardo alla partenza, l'arrivo alle 6 di mattina in una piazza Massena ancora al buio, con due ore da riempire senza sapere come, si può dire che le cose più interessanti siano accadute dal diciottesimo chilometro in poi.

Fino a quel momento sono rimasto incollato ai pacer delle tre ore e quindici, tempo evidentemente al di sopra delle mia attuali possibilità visto che mi ritrovo a correre non su due gambe ma su due tronchi d'albero e questo non è un segnale incoraggiante durante una maratona giunta neppure a metà.
Così, quando a Villeneuve Loubet scorgo tra il pubblico Lia e mia madre, annuncio loro la mia intenzione di ritirarmi. Lia mi consiglia dispiaciuta di provarci comunque, magari rallentando, ma sento di non aver proprio più nulla da dare. Al ventunesimo chilometro finalmente mi fermo, e telefono perché mi vengano a recuperare da qualche parte. L'impresa è complicata dal fatto che sia lei che mia madre al momento sono sul treno che hanno preso per seguire la competizione, fermandosi e risalendo in vari punti del passaggio di quest'ultima. Devono quindi prima tornare a Cannes, recuperare l'auto e poi tornare indietro a prendermi (svantaggi delle gare in linea). Nel frattempo mi rimetto a corricchiare svogliatamente; ormai mi sento estraneo all'evento. Passano alcuni chilometri. Ritelefono a Lia: il treno ha un guasto ed ha accumulato ritardo. Pazienza. La prego di richiamarmi quando il treno riparte. Continuo poco convinto. Fermo il GPS, non c'è più nulla da registrare.


L'attraversamento di Antibes avviene tra due ali di folla incitante: c'è molto entusiasmo, la giornata è splendida e quasi mi spiace di non poter offrire uno spettacolo decoroso, con la mia corsetta che si fa sempre più spenta. Proprio nel clou del passaggio, in mezzo ad una folla consistente di persone il telefono, che ha forma e colore di una saponetta e la stesso coefficiente di scivolamento, cade in terra, attraversa metà sede stradale e si ferma accanto al cordolo. Lo raccolgo velocemente, formulando mentalmente la preghiera che sia ancora funzionante, in quanto unico via d'uscita da quella maratona. E' Lia e mi informa che il treno è finalmente ripartito.
L'idea di fermarmi da qualche parte ad aspettare non mi va, quindi proseguo, alternando alla sterile corsetta anche qualche tratto di camminata.
Dopo aver costeggiato il porto, l'Avenue de Verdun percorsa dalla fiumana di partecipanti curva a destra verso l'interno della cittadina, ed una ulteriore svolta, questa volta a sinistra, rivela con mio sommo disappunto una salitella, uno spunto, uno strappetto. Durante una maratona però, anche salire su un cordolo equivale a fatica e per me quel tratto, di soli 36 metri di dislivello che ci porterà a Cap d'Antibes, equivale al Passo Pordoi. A dispetto delle sensazioni negative, arrivo in cima zampettando con passo accettabile a fianco del Musée Picasso ed approfitto della successiva discesa per rifiatare.
Si sale verso Cap d'Antibes

Quando la discesa spiana, scopro di avere ancora meno energia in corpo.
Bravò Gianfranco! E' l'incitamento che raccolgo da più di uno spettatore che, letto il nome sul pettorale, vuole benevolmente darmi quella carica che in quel momento non ho. Vorrei infatti solo fermarmi, ma la forza della maratona mi spinge avanti a forza. Il fiume umano del quale faccio parte mi condiziona col suo fluire e ci vuole (incredibilmente) una certa forza mentale per fermarsi o anche solo camminare quando tutti corrono avanti.
Del resto, fermarsi dove? In quel momento non sapevo di preciso dove fossi e di conseguenza neppure ero in grado di fornire una indicazione utile al recupero.

Squilla la saponetta: Lia mi avvisa che il treno è arrivato a Cannes, appena sale in auto mi richiamerà.
Nel frattempo proseguo sperando di raggiungere prima o poi una zona ove possano venirmi a prendere. In quel momento la strada costiera sembra lontana dalle arterie principali di comunicazione e non è mia intenzione abbandonare la maratona per inoltrarmi in strade cittadine sconosciute al solo scopo di essere recuperato più facilmente.
Esausto


Ormai, ogni chilometro è guadagnato con i denti e l'unico carburante mentale di cui dispongo è la speranza che presto il calvario avrà fine. Magari alla prossima svolta oppure alla fine del lungo rettilineo che ho davanti potrò fermarmi ed aspettare, e null'altro. Sono ancora in gara, ma non mi sento affatto in gara, non più.
Abbiamo tagliato a metà un istmo e siamo entrati a Juan-Les-Pins.
Dopo uno spunto in salita, che questa volta mi lascio alle spalle senza neppure azzardare un passetto di corsa, il tracciato di gara viene affiancato a destra da una strada trafficata.
Perfetto, penso.
Leggo su un vicino cartello stradale, cercando punti di riferimento:
Antibes alla mia destra, Golfe Juan alla sinistra: un po' generico.
Comunque mi fermo e mi siedo.
Rifletto.
TROPPO generico.
Mi rialzo e riprendo il cammino, attraversando la strada per portarmi dalla parte opposta della carreggiata, ove possa camminare senza ostacolare nessuno.
Ora mi serve soltanto un riferimento geografico da fornire a Lia, perché lo imposti sul navigatore.
Ecco, quel residence dal nome La CROIX DU SUD sembra perfetto.
Altra telefonata per comunicarne il nome.
Nel frattempo, mi sono di nuovo fermato. Sto per togliermi il pettorale ma poi rifletto che tenerlo in mano sarebbe più scomodo e lo lascio dov'è.
Faccio un po' di stretching, mi guardo intorno. Poi noto l'estremità di una viuzza, il cui sbocco sul tracciato di gara è presieduto da una pattuglia di polizia locale e ritenendolo un punto migliore da raggiungere in auto, mi ci reco, spostandomi dunque un po' più avanti rispetto al residence.
Attendo fiducioso.
Alcune auto si sono fermate per assistere al passaggio della maratona.
Mi attraversa un pensiero fuggevole in che mi suggerisce quanto sarebbe dolce approfittare di un passaggio fino a Cannes. In auto, ma anche in motorino.

Dopo parecchi minuti di attesa che si è fatta progressivamente  frustrante, ritenendo che muoversi sia meglio che attendere inutilmente, conscio che la circolazione viaria, pesantemente modificata per la maratona, renderebbe arduo il mio ripescaggio mi ributto nel flusso umano incessante diretto verso la meta. Siamo ormai in zona più animata, non dovrebbe essere difficile il recupero.
Dalle retrovie spuntano i pacer delle 3:30 che si allontanano all'orizzonte in breve tempo. Forse, se avessi puntato a loro, anziché a quelli delle 3:15 sarei ancora in gara. Sottolineo IN GARA e non semplicemente presente in essa, come sono ora.
Questa volta mi è andata di rischiare puntando in alto. Forse troppo, certo; ed ora, un ritiro. Non è una buona notizia per il morale, perché di ogni ritiro qualcosa, in fondo, rimane, e può crearmi un precedente. Ma oggi non va proprio: di proseguire non se ne parla. Del resto, questa maratona neppure l'ho preparata ed è a tutti gli effetti un corpo estraneo in una tabella di preparazione incentrata sui trail, iniziata da poco e perdipiù con uscite domenicali di un'ora e trenta di lungo al massimo.
E' dal diciottesimo chilometro ormai che anelo al ritiro e mi chiedo con quali forze sia riuscito ad arrivare fin qui, al trentacinquesimo. Quanto mancano? Sette chilometri? Naaa, non ce la posso fare, non con queste gambe. Con il fiato ce la farei anche, ma non con questi tronchi.
Da un pò la maratona ha ripreso a lambire la splendida costa. Mi fermo ad ogni ristoro, anche perché è l'unica occasione in cui il mio camminare non sembri fuori posto rispetto alla corsa degli altri.
Laddove tutti si precipitano ai numerosi banchi come falchi sgomitando ed ingollando frettolosamente qualcosa di liquido e solido prima di ripartire in fretta io con calma bevo più volte, riempio la borraccia a mano, e proseguo, sempre camminando.
Richiamo Lia, per avvisarla che mi sto avvicinando ed in quel momento noto il cartello del

38 esimo chilometro

E' in quel frangente che la mia percezione della realtà cambia.

"Rimani dove sei, la finisco!” le dico.

Realizzo che l'impresa che sembrava impossibile si è fatta improvvisamente alla mia portata: tutti i pensieri neri che mi avevano accompagnato fino a quel momento lasciano il campo ad una strana sensazione di rivincita. Il traguardo è a pochi chilometri:  la montagna inaccessibile, troppo alta da scalare, si è sgretolata pezzo a pezzo, chilometro dopo chilometro ed ora è soltanto una lieve, dolce collina.
Accelero. La camminata diventa corsetta, poi corsa. Recupero posizioni su posizioni, volo sulle ali di un ritrovato entusiasmo; è un passo da inizio gara, non da fine maratona.
E' l'orgoglio che mi spinge avanti, è la mia personale rivincita. Mi accoglie la scritta Cannes. Sembra un sogno. Sembra un altra gara, quella cui sto partecipando. Questi chilometri finali sono una fiammata in cui bruciano tutti i pensieri negativi di sconfitta, rinuncia e pessimismo nutriti fino ad allora.
Il tempo non mi interessa, quello che importa a questo punto è finire.
La mia terza maratona si conclude con una volata forsennata ad un passo medio di 3.34 sul tappeto blu che porta al traguardo tra l'assordante boato della folla che assiepa le transenne ai due lati.
Il tempo, di quattro ore e due minuti sembra addirittura benevolo, visto i frequenti stop, le attese, le camminate.
Sebbene dal diciottesimo fino al trentottesimo chilometro il mio unico pensiero sia stato solo quello di sottrarmi alla stanchezza, al gioco che non volevo più giocare, alla missione che non consideravo più mia, la sconfitta è diventata inaspettatamente vittoria.  Non mi è servito tanto il crederci, perchè non ci credevo più, quanto il fatto di continuare comunque ad andare avanti.
Un insegnamento prezioso, che è il regalo più grande di questa maratona.


La fiammata finale

martedì 3 febbraio 2015

Di corsa nella prateria, di notte (Ysangarda Night Trail).


Mi presento sabato a Candelo (Biella) allo start  della seconda edizione dell' Ysangarda Night Trail (gara serale non competitiva di diciannove chilometri) munito di una potente frontale acquistata solo la mattina prima, Avevo accarezzato l'idea di attrezzarmi con le tre piccole pile che già possedevo, ma immaginarmi come un piccolo albero di Natale semovente mi aveva fatto desistere.
Allo start il piccolo esercito di trailers si lascia alle spalle Candelo, e gli incitamenti gioiosi ed energici di Paolo Boggio, speaker ed organizzatore, per inerpicarsi dopo tre chilometri circa su una salitella ripida che ci porta sopra l'altopiano della Baraggia, sorta di savana in miniatura il cui fascino, vista la visibilità in veloce diminuzione, è di gran lunga ridotto. Accendo la frontale, apprezzandone il fascio potente: l'oscurità non potrà darmi problemi. Il sentiero è in gran parte occupato da fango, più o meno profondo e scivoloso. Cerco, come tutti, di poggiare il piede laddove il suolo appaia più asciutto e stabile, preferendo occasionali deviazioni nei prati adiacenti la traccia alle insidie fangose del sentiero principale, Non sempre è però possibile evitare la palta, da cui i piedi si liberano con suono di risucchio. In breve, tutto il mio mondo si  racchiude  entro lo spazio illuminato dalla mia e le altrui torce.  Attraversiamo praterie, entriamo ed usciamo dal sottobosco dal morbido tappeto di foglie morte. Le gambe girano bene, me n'ero già accorto durante il riscaldamento. Zompo in maniera così libera e fluida da nutrire il segreto timore che pagherò, prima o poi, il dazio di tale sbruffonesca baldanza.

Nel finale le file dei partecipanti si sgranano e mi ritroverò a correre quasi solo nel bosco. Seguire la giusta via è comunque facile: la luce del mio faretto si riflette su strisce catarifrangenti sistemate in punti strategici. Qualora non bastasse, l'occasionale balugìnio della torcia di chi mi precede mi aiuta a capire la direzione. Inoltre sono presenti dei volontari nei punti con svolte importanti. Il ristoro del decimo chilometro è una sorta di isola di luce nell'oscurità sconfitta da potenti fari azionati da un generatore.  Mi accoglie un volontario  che velocemente mi illustra tutto ciò di cui  posso cibarmi, come un premuroso anfitrione al cui uscio si presenti un viandante affamato e frettoloso. Bevo giusto un sorso di the caldo, e mi rifornisco di alcuni pezzi di cioccolata. Ringrazio e riparto. Non avverto la presenza di immediati inseguitori, ma voltatomi appena scorgo un serpente di luci che mi tallona. a poca distanza.

Seguo un ritmo regolare, nè troppo forte nè troppo lento.

Con il trascorrere dei chilometri le voci alle mie spalle si fanno sempre più fioche.
 Negli ultimi due chilometri la temperatura si abbassa tanto che ho quasi l'impressione di star partecipando ad un'altra gara. Emano sbuffi vaporosi di fiato ed  avverto un po' di freddo a mani e piedi. Nel frattempo incontro lungo la strada gruppetti di nordic walkers, che si fanno da parte appena avvertono il mio arrivo. Già noto in lontananza il campanile del paese quando un volontario mi indica una brusca svolta a destra, avvertendomi di stare attento, perché il fondo è ghiacciato. In effetti mi trovo a scendere rapido lungo un sentiero di ciottoli completamente imbiancato dal gelo. Le Speedcross della Salomon, che hanno dimostrato un buon grip nel fango, non deludono neppure ora; raggiungo il fondo della discesa senza neppure il minimo accenno di slittata. Mi aspetta in seguito un'ultima corta asperità di circa ottocento metri su asfalto che affronto a passo di formica, senza però smettere di correre.
Varco la soglia del Ricetto e del traguardo seguente dopo un'ora e trentasei minuti di fangosa sgroppata, soddisfatto, in generale, per le buone sensazioni vissute. ed il divertimento mai minato dalla stanchezza.
Rock'n' roll
La classifica.



Si parte!


Un tratto piuttosto paludoso (foto da www.traildeiparchi.com)